8 SETTEMBRE 1943, L’INGANNO RECIPROCO – 3

a cura di Cornelio Galas

PUBBLICAZIONI DEGLI ARCHIVI DI STATO

L’ARMISTIZIO TRA L’ITALIA E GLI ANGLOAMERICANI

RETROSCENA, SEGRETI E FALSE VERITA’

di Elena Aga Rossi *

L’8 settembre

Quando si arriva alla giornata dell’8 settembre le testimonianze dei protagonisti si fanno ancora più contraddittorie e diventa impossibile chiarire le esatte responsabilità per quella che è stata definita “la completa follia del governo italiano e del comando supremo”. Il comportamento schizofrenico di de Courten è uno dei tanti elementi di difficile spiegazione della situazione nei giorni dal 3 all’8 settembre 1943. Il ruolo dei vari protagonisti e i loro rapporti rimangono oscuri. Il re evidentemente fu tenuto costantemente informato da Badoglio, ma vi fu uno stretto collegamento anche tra Badoglio e gli altri generali?

Raffaele de Courten

A posteriori quasi tutti hanno sostenuto di aver saputo pochissimi delle trattative, e il ministro della guerra, Antonio Sorice, ha perfino affermato di essere stato informato dell’armistizio soltanto l’8 settembre. E’ possibile che Ambrosio, vedendo “quasi ogni sera” i tre capi di Stato maggiore delle forze armate, non li tenesse al corrente degli avvenimenti? E come si spiega la misteriosa sparizione dello stesso Ambrosio, il principale sostenitore dell’armistizio, proprio durante la visita del generale Taylor nei giorni in cui dovevano intensificarsi i preparativi del Comando supremo in vista dell’annuncio ormai prossimo? E il suo ritorno in treno con il maresciallo Caviglia, invece di accogliere l’invito dei suoi subordinati di usare l’aereo?

E’ evidente che Ambrosio non volle incontrarsi con il generale Taylor, tanto da non farsi vedere nemmeno al suo ritorno, nella mattina dell’8, ma i motivi del suo comportamento rimangono incomprensibili. Anche l’atteggiamento di Roatta è contraddittorio: da una parte prese l’iniziativa di inviare un proprio uomo, Zanussi, a partecipare alle trattative, per poi sostenere di essere stato lasciato fuori da ogni decisione e di non aver saputo nulla fino alla fine, salvo ad intervenire il 6 settembre per bloccare l’attuazione degli accordi. E che ruolo ebbe Carboni, fin dall’inizio contrario all’armistizio eppure con una funzione cruciale per il successo dell’operazione di sganciamento dai tedeschi?

Tutte queste domande insolute e questi aspetti poco chiari rendono plausibile l’ipotesi che il re e Badoglio abbiano continuato fino all’8 settembre a tenere aperte entrambe le possibilità: quella dell’armistizio con gli angloamericani, nel caso lo sbarco alleato fosse così massiccio da costringere i tedeschi a ritirarsi, oppure quella di una sconfessione dell’armistizio e di una continuazione della cooperazione con i tedeschi.

Nella seconda evenienza è probabile che Caviglia avrebbe dovuto sostituire Badoglio, che si sarebbe addossato tutta la responsabilità delle trattative con gli angloamericani. Quello che sembra ormai certo è che il governo Badoglio non prese nemmeno in considerazione l’eventualità di prendere l’iniziativa nei confronti dei tedeschi; non solo perché era convinto dello sbarco in forze alleato, ma anche perché pensava, come gli angloamericani, che i tedeschi avrebbero attuato i piani previsti di ritirarsi almeno alla linea degli Appennini in caso di uno sbarco alleato.

Badoglio a colloquio con i generali Mac Farlane e Taylor

Quando si prospettò una situazione in cui c’era il rischio che nessuna delle due possibilità si realizzassero, Badoglio escluse comunque di combattere contro i tedeschi e si illuse che fosse ancora possibile rinviare sia l’operazione Giant 2 che l’annuncio dell’armistizio. Questa duplice richiesta fu avanzata con il telegramma di Badoglio nella notte dell’8 settembre, di cui s’è già detto. La mattina seguente su proposta di Roatta, Badoglio decise di mandare un ufficiale di rango elevato al Quartier generale di Eisenhower, per spiegare personalmente la situazione italiana.

Roatta preparò un secondo promemoria per affidarlo al generale Rossi, che partì per il comando alleato nel pomeriggio dell’8 con lo stesso aereo che riportava Taylor ad Algeri. Il comando italiano pensò, o fece finta di pensare, che sarebbe bastata una comunicazione all’ultimo minuto per convincere Eisenhower a posporre l’annuncio. La Memoria sulla difesa di Roma scritta da Roatta nei mesi seguenti evidenzia o una macroscopica faciloneria o un tentativo da parte italiana di crearsi un alibi.

Mario Roatta

Rossi arrivò ad Algeri dopo l’annuncio dell’armistizio, e quindi la sua missione fu inutile, ma il testo del messaggio, che qui si pubblica per la prima volta, è d’importanza fondamentale per comprendere l’atteggiamento del Comando supremo italiano e del governo Badoglio su vari punti che continuano ad essere oggetto di interpretazioni contrastanti. Non si parla di un anticipo dell’annuncio dell’armistizio, ma si dice testualmente: “la parte italiana aveva la netta impressione che lo sbarco nella zona Salerno-Napoli avvenisse verso il 12 settembre”. Inoltre si dà per scontato che ci sarebbe stato un secondo grosso sbarco e quindi si chiede di rimandare l’annuncio dell’armistizio al momento di questo secondo sbarco.

Si suggerisce inoltre l’opportunità di “non fare seguire immediatamente l’armistizio da atti di ostilità italiana contro le truppe germaniche” e la ragione addotta è la seguente: “E’ importante infatti che la iniziativa di tale ostilità sia presa, come quasi sicuramente avverrà, dalla parte germanica, perché in questo caso non ci sarebbe la minima incertezza da parte della popolazione e delle truppe nel combattere i tedeschi”.

il generale Aldo Rossi

Alcune notazioni a margine, scritte a mano quasi sicuramente dal generale Rossi durante il viaggio, riguardano la richiesta di spostare lo sbarco di almeno sette giorni e l’azione dei paracadutisti di altre 24 ore, per “salvare la faccia”. Vi è una notazione alla fine del testo che si riferisce alla flotta: “Squadra interesse che cooperi. Non pretendere che vada nei porti. Si autoaffonda. Meglio Sardegna”. Il documento riflette molto accuratamente la posizione del governo Badoglio l’8 settembre e la sua scelta in favore di un atteggiamento passivo, nella speranza di evitare la temuta reazione tedesca. L’ultima notazione sottolinea inoltre la convinzione diffusa ed espressa più volte da de Courten che sarebbe stato difficile far accettare ai comandanti delle unità italiane l’invio della flotta a Malta, poiché essi l’avrebbero considerato un atto disonorevole.

La mattina dell’8 settembre governo e comandi militari sapevano che l’armistizio sarebbe stato annunciato in giornata, perché l’aveva detto esplicitamente il generale Taylor. Comunque gli angloamericani davano un altro inequivocabile segnale dell’imminenza dell’ora X, bombardando massicciamente Frascati, sede del Quartier generale del maresciallo Kesselring. I rappresentanti del comando alleato avevano espresso l’intenzione
di bombardare Frascati il giorno dell’annuncio dell’armistizio per tentare di paralizzare il comando tedesco. Inoltre arrivava a Roma la risposta negativa di Eisenhower alla richieste contenute nella nota del 6 settembre, inclusa quella di permettere alla flotta di afidare alla Maddalena. Il comandante americano dichiarava che era impossibile “cambiare i piani delle operazioni a causa dell’assoluta imminenza dell’operazione e data già fissata”.

Né Badoglio né Ambrosio dettero peso a questi chiari avvertimenti e non presero alcuna iniziativa fino a poco dopo le cinque del pomeriggio, quando arrivò la risposta di Eisenhower alla richiesta fatta da Badoglio la notte precedente di posporre l’armistizio. Nel messaggio si ribadiva la decisione di annunciare l’armistizio all’ora convenuta, cioè alle diciotto e trenta, e di denunciare al mondo gli accordi presi se il governo Badoglio avesse tentato di tirarsi indietro. Inoltre, con una dichiarazione della Reuter, la notizia dell’uscita dell’Italia dalla guerra diveniva pubblica.

Soltanto allora, per stabilire il da farsi, fu convocato il cosiddetto Consiglio della Corona, come è impropriamente chiamata la storica riunione cui parteciparono il re, il duca d’Acquarone, Puntoni, i ministri militari, Carboni, Guariglia, Ambrosio e infine Badoglio, “pallido e affranto”. Su richiesta di Ambrosio fu invitato a partecipare anche il maggiore Marchesi, che essendo stato con Castellano ad Algeri, era il più informato sulle posizioni degli angloamericani.

Vittorio Ambrosio

L’andamento della riunione è un’ulteriore conferma dell’ipotesi che il re e Badoglio siano rimasti incerti fino alla fine se accettare o no l’armistizio. Vi sono diverse versioni sul contenuto degli interventi, ma sostanzialmente tutte concordano sul fatto che nonostante le minacce di Eisenhower, la proposta di Carboni di sconfessare l’armistizio e di conseguenza anche Badoglio e di continuare la guerra a fianco dei tedeschi fu appoggiata dalla maggioranza dei presenti.

A quel punto intervenne Marchesi, che cercò di riportare i presenti alla realtà, sostenendo l’impossibilità di tornare indietro dopo aver firmato un documento di armistizio e di riuscire a convincere i tedeschi della buona fede italiana. Soltanto allora il re decise di mantenere l’impegno di proclamare l’armistizio e Badoglio si recò alla radio per leggere il testo dell’annuncio. Durante tutta la riunione nessun cenno fu fatto al problema della difesa di Roma.

Molti interrogativi sono ancora aperti sulla decisione del comando italiano e del governo Badoglio di mantenere un atteggiamento passivo nei confronti dei tedeschi, invece di passare all’offensiva, secondo gli impegni presi con l’armistizio. La conseguenza più evidente di questo atteggiamento fu la mancata difesa di Roma, su cui si concentrò fin dall’inizio l’attenzione di tutti, ma essa non fu che un episodio della dissoluzione dell’esercito italiano tra i tanti gravissimi che seguirono la proclamazione dell’armistizio.

La congiura del silenzio, che aveva impedito ogni informazione preventiva ai comandi, continuò anche al momento dell’armistizio. Roatta sostiene di aver chiesto nella notte tra l’8 e il 9 settembre ad Ambrosio di emanare l’ordine di esecuzione della “Memoria 44”, ma che Ambrosio rifiutò di farlo senza l’autorizzazione di Badoglio, perché sarebbe stato “in contrasto con le direttive del Capo del governo e con la dichiarazione radio da lui fatta poco prima”.

Manduria – 22 ottobre 1943 Il re fuggito ispeziona un reparto accompagnato dal generale Sandalli e da ufficiali americani

Badoglio dette due versioni diverse. Davanti alla Commissione Palermo sostenne di aver detto che “bisognava dare gli ordini in proposito, già preparati in precedenza, non solo al generale Ambrosio, ma anche ai generali Sorice e Sandalli e all’ammiraglio de Courten”. In una deposizione al Tribunale Militare di Roma del gennaio 1947, fitta di persistenti amnesie e di evidenti contraddizioni, negò che una tale autorizzazione gli fosse stata richiesta, così come dichiarò di non ricordare o di non sapere quasi nulla dei rapporti con gli alleati, perché “codesta materia concerneva le operazioni militari”.

Così il capo del governo, maresciallo d’Italia, dichiarava di sapere ben poco sulle trattative per l’armistizio, perché esulavano dalle sue competenze, mentre il responsabile del Comando supremo sosteneva di non poter emanare alcun ordine senza esserne autorizzato da Badoglio. In realtà Ambrosio, Badoglio e Vittorio Emanuele non mutarono nemmeno dopo l’8 settembre l’atteggiamento iniziale, che era quello di non opporsi ai tedeschi e di non impedire loro di inviare sempre più truppe per la “difesa dell’Italia”.

Il percorso della flotta italiana al comando di Bergamini

Come ha riconosciuto lo stesso Badoglio “fu stabilito da parte del Comando Militare di non difendere Roma perché si ebbe la sensazione che lo sbarco sarebbe avvenuto lontano dalla capitale e perché la divisione paracadutisti non era venuta”. Fu invece emanata la direttiva di lasciar passare i tedeschi nelle zone controllate dagli italiani, nella speranza che essi si ritirassero. L’unica preoccupazione delle massime autorità dirigenti italiane fu quella di non cadere nelle mani tedesche, fuggendo in una zona sotto sicuro controllo italiano.

Fin dai primi contatti con gli alleati Castellano aveva posto il problema di un possibile trasferimento della famiglia reale in un posto sicuro al momento dell’armistizio. Nell’incontro del 31 agosto Bedell Smith aveva suggerito la Sicilia, mentre Castellano aveva parlato della Sardegna e l’argomento era stato ripreso negli incontri seguenti senza arrivare ad una decisione definitiva. La scelta cadde sulla Sardegna, che era sotto controllo
italiano, e il 5 settembre de Courten dispose che due cacciatorpediniere, il Vivaldi e il Da Noli si trovassero il 9 mattina a Civitavecchia per essere pronti, in caso di bisogno, ad imbarcare il re.

Nella notte dell’8 però i tedeschi occuparono la costa intorno ad Ostia; fu quindi presa la decisione di imbarcarsi per il sud a Pescara, perché la via Tiburtina sembrava l’unica uscita da Roma sgombra da truppe tedesche. In realtà le modalità di questa fuga lasciano molte perplessità. Nonostante il timore dei tedeschi non fu presa alcuna precauzione per nascondere la partenza: il re, la regina e il principe lasciarono Roma verso le cinque antimeridiane del 9 sulla solita automobile segnata dallo stendardo reale e con altre quattro o cinque vetture con Badoglio, Acquarone e gli ufficiali al seguito, tutti in uniforme.

Non potevano quindi passare inosservati ai posti di blocco tedeschi lungo il percorso, che però li lasciarono passare. Proprio mentre la famiglia reale partiva, Roatta faceva emanare l’ordine al Corpo d’Armata motocorazzato di ripiegare su Tivoli per evitare di esporre “città e cittadinanza a gravi e sterili perdite”, l’ordine cioè di non difendere Roma.

La successione e le modalità degli eventi ci fa ipotizzare che l’ordine di ripiegamento delle divisioni su Tivoli fosse stato dato o semplicemente per proteggere la fuga del re o per un accordo con il comandante delle forze tedesche Kesselring di consegnare Roma in cambio della fuga indisturbata de re e del governo. Quest’ultima ipotesi fu sollevata prima da Carboni e poi ripresa da Zangrandi e da Palermo, ma data la scarsa credibilità di Carboni, il cui comportamento sia nel periodo precedente all’armistizio che nelle giornate dell’8 e 9 fu di una incredibile leggerezza e incompetenza, e la mancanza di prove, non fu accettata.

Eugen Dollmann(a sinistra) con Hitler

Che la decisione di non difendere Roma fosse stata presa subito è un fatto acquisito, sulla base delle testimonianze che abbiamo citato, ed è stata confermata da Kesselring nella sue memorie. Non è mai venuto fuori alcun documento invece sull’esistenza di un accordo tra Kesselring e il comando italiano. In una testimonianza privata Eugen Dollmann, colonnello dei servizi segreti tedeschi, ha parlato di una decisione di Kesselring, dietro sua sollecitazione, di lasciar andare via i sovrani italiani per non aggravare la situzione militare.

La decisione potrebbe essere stata presa per evitare, nel caso di un arresto del re, una reazione dell’esercito italiano oppure, in seguito ad un accordo tra Ambrosio e Kesselring, questi si impegnava a lasciar andare via il re indisturbato in cambio dell’impegno di Ambrosio di non difendere Roma e di non emanare l’ordine di attaccare i tedeschi. D’altra parte la testimonianza di Dollmann da sola è insufficiente per stabilire come si svolsero veramente i fatti.

E’ probabile quindi che i comandi periferici fossero lasciati senza ordini non perché non ce ne fu il tempo, ma perché si volle evitare uno scontro con i tedeschi. Mancando totalmente un’azione di orientamento, l’assenza di ordini al momento dell’armistizio e nelle ore successive, e l’abbandono della capitale da parte del governo e del Comando supremo, non potevano che provocare caos e sbandamento generale.

Il Comando supremo tedesco dopo un primo momento di attesa, e qualche episodio di disorientamento – l’ambasciata tedesca a Roma bruciò i suoi archivi e il personale fu fatto partire per il nord – di fronte all’inazione italiana diramò la parola convenzionale per il piano “Achse”, previsto nel caso di una capitolazione italiana. I comandanti tedeschi occuparono subito i punti vitali, senza trovare quasi nessuna resistenza e intimarono il disarmo o la collaborazione alle unità italiane lasciate senza alcun ordine.

Da parte loro gli alleati fecero tutto il possibile per esortare gli italiani a combattere contro i tedeschi. Immediatamente dopo 1a proclamazione dell’armistizio l’ammiraglio Cunningham inviò per radio istruzioni alla flotta italiana di dirigersi su Malta mentre il generale Henry Maitland Wilson, comandante in capo delle forze alleate per il Medio Oriente, trasmetteva alle truppe italiane nei Balcani e nell’Egeo la direttiva di dirigersi verso i porti più vicini.

generale Henry Maitland Wilson

Si è sempre scritto che la flotta esegui immediatamente le clausole dell’armistizio, dirigendosi nei porti stabiliti. In realtà, come abbiamo visto la Marina era delle tre armi forse la meno preparata a ricevere l’ordine così sorprendente e improvviso di consegnarsi al nemico. Forse per timore di non essere obbedito o perché egli stesso contrario ad una tale decisione, de Courten decise di non chiedere immediatamente alla flotta l’attuazione dei termini d’armistizio, come la successione dei radiomessaggi inviati tra la sera dell’8 e tutta la giornata del 9 fa chiaramente trasparire.

Innanzitutto i testi di questi radiomessaggi mostrano che subito dopo l’annuncio dell’armistizio Supermarina ordinò di cessare le ostilità e di dirigersi ai porti di destinazione. Soltanto al Comando della V Divisione, che si trovava a Taranto, venne ordinato di dirigersi a Malta. Alla squadra navale deI Tirreno fu chiesto prima di eseguire gli ordini del “Promemoria n. l” e poi di concentrarsi sull’isola della Maddalena in Sardegna, dove avrebbe dovuto ricevere ulteriori ordini.

Quando arrivò la notizia che La Maddalena era stata occupata dai tedeschi, alla squadra venne ordinato di cambiare rotta e dirigersi su Bona. Mentre stavano rettificando la rotta vi fu l’attacco tedesco, che causò l’affondamento del Roma e la perdita di quasi tutto l’equipaggio, incluso il comandante Bergamini. Soltanto allora la flotta si diresse verso Malta. Fu anche grazie al fatto che il Ministero della marina continuò a mantenere i contatti con le navi e ad impartire gli ordini, ricordando tra l’altro che secondo l’armistizio la flotta avrebbe continuato a battere bandiera italiana e non sarebbe stata smobilitata, che
nella maggioranza dei casi venne mantenuta la disciplina.

La flotta non andò compatta a Malta, e molte navi furono perse, ma si evitò anche che le unità si autoaffondassero, salvo alcuni casi. Qualche unità si diresse alle Baleari, e quasi tutta la marina mercantile rimase nei porti, ma data la situazione iI risultato fu soddisfacente. Gli equivoci e le ambiguità nate durante il negoziato tra gli alleati e gli italiani continuarono anche dopo la proclamazione dell’armistizio. Badoglio, il re e il Comando supremo italiano erano convinti che quello di Salerno fosse uno sbarco “secondario”, come era stato descritto da Smith a Castellano, e che lo sbarco principale avrebbe visto impegnate circa nove divisioni in un’area vicino a Roma.

L’affondamento della corazzata “Roma”

Anche al momento della fuga da Roma essi pensavano che quest’emergenza sarebbe durata una o due settimane, e che poi sarebbero tornati nella capitale ormai in mano agli angloamericani. Nessuno poteva prevedere, né gli italiani né Churchill o Roosevelt o Eisenhower, che i tedeschi avrebbero tenuto Roma per altri nove mesi e forse una tale previsione era al di là delle più rosee speranze dello stesso Kesselring. Gli angloamericani al momento dello sbarco prevedevano di essere a Roma per ottobre, e ad ottobre pensavano ancora di poterei arrivare a novembre.

L’8 settembre concretizzò le paura di ritorsioni da parte dei tedeschi, sentimento che aveva paralizzato l’azione del governo per tutto il periodo seguito alla estromissione di Mussolini. Il re e Badoglio continuarono con la tattica seguita fino allora, improntata alla massima prudenza, pensando che i tedeschi si sarebbero ritirati se non si dava loro l’occasione di reagire. Non vi fu mai l’intenzione di passare ad una attiva azione contro i tedeschi, nemmeno dove le forze militari lo avrebbero permesso.

10 settembre 1943: soldati italiani cercano di contrastare i tedeschi presso porta San Paolo

Questo atteggiamento può essere spiegato con varie motivazioni o loro combinazioni, dalla volontà di non tradire un alleato, alla speranza di poter “salvare la faccia” o al terrore della reazione tedesca nei confronti delle persone e delle città. Il risultato fu comunque quello di portare alla disgregazione delle forze armate italiane, all’internamento di 600.000 soldati e ufficiali e all’occupazione tedesca di quasi tutto il territorio italiano.

Nel suo diario Caviglia ricorda un episodio che illustra come al momento della fuga il re e Badoglio fossero assolutamente sicuri che la loro assenza da Roma sarebbe durata pochi giorni. Secondo la testimonianza della duchessa di Bovino, di cui i sovrani e il loro seguito furono ospiti a colazione il 9 settembre in attesa di imbarcarsi a Pescara, e quella di un altro ospite, il generale Diego Salazar y Munatones, durante il pranzo il re sostenne che Roosevelt aveva annunciato la resa incondizionata dell’Italia soltanto “per una manovra elettorale” e, mostrando il portafoglio con sole mille e duecento lire, si dichiarò sicuro di un rapido rientro a Roma.

Da parte sua Badoglio affermò: “Io sono piemontese e se dico una cosa è perché ne sono sicuro. Fra quindici giorni al più tardi saremo di ritorno”. Acquarone era convinto di tornare entro tre giorni, e non aveva che un solo abito, quello che indossava. Colpisce come in quel momento cruciale le supreme autorità dello Stato fossero così lontane dalla realtà e non si rendessero conto né delle loro responsabilità né delle conseguenze della loro fuga.

A proposito della totale incapacità di lettura della situazione si veda anche una lettera del 19 ottobre 1943 nella quale Ambrosio rimproverò a Castellano la sua dichiarazione, nei giorni precedenti all’armistizio, che “la Capitale sarebbe rimasta in crisi pochi giorni prima dell’arrivo delle armate anglo-americane”; in un commento a margine Castellano notava che la sua affermazione era in relazione “alla difesa di Roma e all’impiego della divisione paracadutisti americani che non fu accolta dal Comando Supremo”.

Le reazioni alleate alla dissoluzione dell’esercito italiano

L’ 8 settembre costituì un punto di svolta anche per l’atteggiamento angloamericano nei confronti dell’Italia, perché pose fine all’ipotesi di una collaborazione militare, anche se ci vollero alcuni giorni prima che fosse chiara l’entità del disastro e si decidesse di trarne le debite conseguenze.

Churchill

Sia Roosevelt che Churchill avevano sperato che questa ipotesi si concretizzasse, e durante la conferenza di Quebec avevano di fatto modificato la politica della resa incondizionata con la “dichiarazione di Quebec”. Churchill continuò ad esprimere la massima fiducia in un’iniziativa italiana, cercando di convincere il Foreign Office delle sue posizioni. In una lettera del 7 settembre, in particolare, si spinse ad affermare: “Mi sembra che l’Italia abbia molto da dare (…) Gli italiani devono guadagnarsi il passaggio, ma se si comportano bene noi dovremmo trattarli per tutto, tranne che per il nome, come alleati. Può essere che essi combattano molto meglio con noi che non con Hitler”.

Il 9 settembre Churchill, in quel momento a Washington, presentava a Roosevelt e ai capi di Stato maggiore americani il proprio punto di vista in un memorandum per convincere gli americani a sfruttare le nuove possibilità aperte dall’armistizio con l’Italia. Il documento mostra l’ampiezza delle speranze suscitate dall’impegno italiano di passare attivamente dalla parte alleata e dalla convinzione che i tedeschi si sarebbero ritirati “sugli Appennini o sul Po”.

Roosevelt

Il memorandum è noto perché è stato pubblicato nelle memorie di Churchill, ma nonostante ciò la storiografia italiana ha continuato a sostenere che gli inglesi non credettero mai ad un contributo militare italiano. Esso costituisce anche la prova evidente della diversa posizione in cui si sarebbe trovato il nostro paese se avesse almeno tentato di reagire ai tedeschi. Churchill prevedeva che divisioni italiane avrebbero combattuto insieme a quelle alleate in futuro e che “l’aiuto contro il nemico non sarà solo appoggiato, ma anche ricompensato”.

Il primo ministro inglese non si rese conto subito dell’entità del disastro e continuò a sperare nei giorni seguenti in una reazione italiana. Mentre Roosevelt lasciava Washington per recarsi a Hyde Park, Churchill prese parte ad un’altra riunione con i i capi di Stato maggiore americani per convincerli a mandare un maggior numero di truppe nel Mediterraneo, anche per rendere possibile la conquista delle isole del Dodecaneso, subentrando alle posizioni lasciate dagli italiani.

E’ evidente che per Churchill con l’armistizio italiano si riapriva la possibilità di un salto verso i Balcani, anche se, per non suscitare la diffidenza degli americani, non affrontò esplicitamente l’argomento. Churchill doveva anche combattere una battaglia sul “fronte interno” per convincere il proprio governo. In quegli stessi giorni, a tale proposito, vi fu uno scambio di messaggi con Londra. In una dettagliata analisi della situazione il Chiefs of Staff Committee affermava una forte perplessità nei confronti della posizione del primo ministro, sottolineando il pericolo di “essere coinvolti in una campagna importante nei Balcani” ed espresse i propri dubbi sulla prospettiva di “utilizzare degli alleati poco affidabili come gli italiani in importanti posizioni sulla linea del fronte”.

Capi di stato maggiore combinati in Quebec – 23 agosto 1943. Seduti attorno al tavolo da sinistra in primo piano: il vice Ammiraglio Lord Louis Mountbatten , Sir Dudley Pound , Sir Alan Brooke , Portale Sir Charles , Sir John Dill , Tenente Gen. Sir Hastings L Ismay , il brigadiere Harold Redman , Comdr. RD Coleridge , Brig. Il generale John R. Deane , il generale Henry Arnold , il generale George Marshall , l’ammiraglio William D. Leahy , l’ammiraglio Ernest King e il capitano FB Royal

Nella sua risposta Churchill ribadiva: “E’ del tutto prematuro concludere che le forze armate italiane siano inutili o di poco valore. Esse potrebbero combattere meglio per noi di quanto abbiano mai combattuto per i tedeschi”. E sulla questione dei Balcani sosteneva che “sarebbe una follia non sfruttare le possibilità così favorevoli che ci sono ora offerte”, possibilità che avrebbero potuto portare ad un ritiro tedesco da quella regione.

La perdita dei Balcani effettivamente costituiva in quel momento la massima preoccupazione del Comando supremo tedesco. Ancora il 13 settembre, in viaggio verso Halifax, Churchill telegrafò al generale Wilson insistendo perché fosse tentata la cattura di Rodi con “l’aiuto italiano”, ma il 14 gli italiani si arrendevano consegnando ai tedeschi la città e il porto. D’altra parte nelle zone dove le truppe italiane continuarono a resistere gli aiuti promessi non arrivarono e i tedeschi si vendicarono ferocemente, passando per le anni i soldati dopo averli costretti alla resa.

Anche al comando alleato di Algeri trascorsero alcuni giorni prima che ci si rendesse conto della situazione, Il 10 settembre Eisenhower rivolse un appello a Badoglio: “tutto il futuro e l’onore dell’Italia dipendono dal ruolo che le forze armate italiane sapranno adesso giocare”. La risposta di Badoglio è stupefacente: l’11 settembre, quando la resistenza spontanea di alcuni comandanti in diverse città italiane si stava esaurendo e la maggioranza dei soldati aveva consegnato le armi ai tedeschi, affermava: “Già da ieri sono stati comunicati ordini a tutte le forze armate di agire vigorosamente contro le aggressioni tedesche”; e continuava: “E’ adesso assolutamente necessario, signor generale, che coordiniamo le nostre azioni, dato che combattiamo lo stesso avversario”.

Bedell Smith

Se ci fossero stati dubbi da parte alleata, questo messaggio chiariva che non solo al momento dell’armistizio non erano state emanate direttive per combattere i tedeschi, ma che ancora l’11 gli ordini erano di reagire ai tedeschi, e non di attaccarli. Negli stessi giorni Castellano, rimasto ad Algeri con una missione militare che doveva coordinare l’azione congiunta tra le forze italiane e quelle alleate, cercava di far inviare navi italiane con rinforzi a Corfù e a Cefalonia.

Nel corso delle due settimane seguenti, però, tutte le proposte avanzate dagli italiani per una collaborazione militare e per inserire unità italiane nelle divisioni alleate furono bloccate. La ragione è evidente, ma fu esplicitata da Bedell Smith al ritorno da Malta dove era stato firmato nel frattempo il lungo armistizio: la mancata difesa di Roma, dove si trovavano sei divisioni italiane di fronte a due tedesche, aveva fatto perdere agli alleati ogni fiducia nello spirito combattivo delle nostre unità.

La firma dell’armistizio “lungo”

Nei giorni seguenti alla proclamazione dell’armistizio, il Foreign Office iniziò a fare pressioni su Eisenhower e Macmillan ad Algeri per far sottoscrivere dal governo Badoglio anche l’armistizio lungo. Come si è visto, infatti, al momento della firma dell’armistizio il testo “lungo” (che conteneva le clausole politiche ed economiche della resa) era stato messo da parte per evitare che gli italiani si irrigidissero davanti a clausole così punitive. Ora gli alleati dovevano decidere se imporne la firma nella versione già approvata, apportare delle modifiche per renderlo meno duro e più aderente alla nuova situazione di fatto o soprassedere almeno per il momento.

Ancora una volta si riprodussero gli stessi schieramenti che avevano caratterizzato il mosaico alleato prima della firma. Da una parte il Foreign Office e Churchill, cui si aggiunsero ora i sovietici, che premevano (pur con diversa determinazione) perché fosse firmato il testo già concordato; dall’altra Roosevelt e i militari ad Algeri, che ritenevano superfluo imporre agli italiani un nuovo documento o, per lo meno, chiedevano un alleggerimento dei termini. La soluzione adottata dopo un laborioso dibattito tra Algeri, Londra, Washington e Mosca, che si protrasse fino alla vigilia dell’incontro di Malta del 29 settembre, fu di far firmare le clausole nella loro formulazione originaria.

Badoglio con Mason Macfarlane

Una missione militare guidata dall’inglese Mason Macfarlane, e che includeva Murphy e Macmillan, si recò a Brindisi il 13 settembre per prendere contatti con Badoglio e il re e per rendersi conto della situazione. Al suo ritorno la missione suggerì tra l’altro a Eisenhower di non imporre la firma del lungo armistizio e di affidare al governo italiano l’amministrazione di tutto il territorio liberato in cambio dell’inclusione nel governo dei partiti antifascisti.

Eisenhower fece propria tale richiesta inviandola ai governi alleati il 18 settembre insieme alla proposta di concedere all’Italia lo stato di “cobelligerante”. Churchill accettò la seconda parte della proposta, ma sostenne che sarebbe stato “più facile firmare lo strumento di resa, anche se obsoleto”. Intanto, per assicurarsi l’appoggio dei sovietici, il primo ministro comunicò a Stalin il punto di vista inglese. Il segretario alla guerra Stimson e Roosevelt approfittarono della richiesta di Eisenhower per mettere da parte un testo a loro parere del tutto superfluo e gli inviarono il 23 settembre una nuova direttiva in cinque punti, in cui gli si chiedeva di “sospendere le clausole del lungo armistizio in attesa di ulteriori istruzioni” e lo si autorizzava a dare suggerimenti per “alleggerire le condizioni del lungo armistizio, in modo da rendere possibile agli italiani, nei limiti dello loro capacità, di combattere contro la Germania”.

Roosevelt

Nella direttiva Roosevelt specificava che il testo era stato “concordato dal Primo Ministro e da me”. Il presidente americano inviava anche una copia del messaggio di Churchill come “commento”. Sembrava tutto deciso, ma ci fu una nuova svolta. Macmillan, che pure si era mostrato favorevole a una sospensione della firma dell’armistizio lungo, scrisse a Churchill che a suo parere Badoglio e il re non avrebbero fatto resistenza a firmare.

La preziosa informazione fece ritornare sulla sua decisione Churchill: egli insistette con due telegrammi a Roosevelt, il 24 e il 25 settembre, sostenendo il suo parere con la risposta favorevole avuta da Stalin il 22 al suo messaggio precedente. In questa complessa situazione non mancò l’intervento dei sovietici, che fin dall’inizio erano stati informati delle trattative, e avevano assunto una posizione ancora più intransigente di quella inglese sui termini d’armistizio.

In un messaggio consegnato all’ambasciata americana e datato 25 settembre Molotov, il ministro degli esteri sovietico, affermava che era “particolarmente necessario” affrettare la firma di dettagliate condizioni di armistizio con l’Italia e che qualunque modifica avrebbe dovuto comunque essere concordata dai governi alleati. Di fronte a questa improvvisa resistenza dei suoi due alleati il presidente americano cedette e ordinò a Eisenhower di procedere alla firma del lungo armistizio, qualora fosse possibile ottenerla al più presto.

Roosevelt con Stalin

Nello stesso tempo Churchill, che per rafforzare il proprio punto di vista nei confronti di Roosevelt aveva sollecitato e ottenuto una presa di posizione da parte sovietica, reagì con indignazione al messaggio di Molotov, sostenendo in una lettera a Roosevelt: “non possiamo essere messi in una posizione in cui i nostri due eserciti combattono, ma i russi hanno potere di veto e devono essere consultati anche per piccoli cambiamenti delle condizioni d’armistizio”. Non sarebbe stata l’ultima volta che l’URSS svolgeva una funzione di ago della bilancia nei contrasti tra inglesi e americani.

Il 29 settembre in un incontro a Malta Badoglio e Eisenhower firmarono il lungo armistizio. Badoglio aveva cercato in un incontro precedente di protestare non tanto per le sue dure clausole, ma per l’indicazione che la resa italiana era stata “incondizionata”. Ottenuto comunque l’assenso del re, accettò di firmarne il testo, dopo che Eisenhower si era impegnato ad alcune modifiche formali e a non rendere pubblico il documento.

Eisenhower

Eisenhower mantenne !’impegno, nonostante diversi tentativi del Foreign Office di pubblicarlo. Per tutta la durata della guerra la considerazione più importante fu che la pubblicazione di condizioni così pesanti avrebbe nuociuto all’immagine degli alleati in Italia, provocando il risentimento della opinione pubblica.

L’armistizio italiano: un bilancio

In sede di conclusioni è forse possibile dare qualche risposta agli interrogativi posti all’inizio. Prima di dare un giudizio complessivo si devono valutare i risultati e le conseguenze dell’armistizio, giudicandoli dal punto di vista dei diversi protagonisti.

Il ruolo della parte angloamericana dovrebbe risultare sufficientemente chiarito. Gli obiettivi dei governi inglese e americano erano molto evidenti e definiti, anche se le differenze al loro interno furono notevoli. Come si è visto, il primo obiettivo fu quello di “eliminare l’Italia dalla guerra”, mantenendo però il principio della resa incondizionata e considerando la possibile occupazione tedesca dell’Italia, nel caso di un suo crollo, come una conseguenza inevitabile. L’offerta da parte italiana di una collaborazione militare aggiunse al primo obiettivo un secondo più ambizioso, quello di un ritiro dei tedeschi e della liberazione dell’Italia in tempi brevi. Si può quindi affermare che di questi due obiettivi fu raggiunto soltanto il primo. Era possibile raggiungere anche il secondo?

La liberazione dell’Italia

L’errore principale dei comandi alleati fu di sottovalutare la reazione tedesca e di sopravvalutare la volontà e la capacità del governo Badoglio di agire contro i tedeschi. Essi non si resero conto della misura in cui la collaborazione della monarchia e dello stesso Badoglio con il regime fascista ne limitava le azioni e ne condizionava le scelte. Tra gli errori degli angloamericani non può essere annoverato invece quello di avere ingannato gli italiani, facendo loro credere che avrebbero attuato uno sbarco in forze e non rivelando i propri piani.

Gli alleati non avrebbero potuto in alcun modo dare informazioni sui piani di sbarco a rappresentanti di un paese con cui erano ancora in guerra e lo stesso Badoglio dichiarò che sarebbe stato ingenuo chiederlo: non si poteva escludere che gli italiani stessero facendo un doppio gioco o che i tedeschi effettuassero un colpo di stato, In entrambi i casi i tedeschi avrebbero potuto ributtare a mare e causare gravi perdite alle forze alleate, Fu uno sbaglio semmai quello di non avvertire che la data dello sbarco poteva essere molto vicina, ma a questo si aggiunse la leggerezza di Castellano e sopratutto di Ambrosio nel dedurre una data certa da una “confidenza” di Bedell Smith.

I governi angloamericani e i comandi militari alleati certamente commisero diversi errori di valutazione nella campagna d’Italia, preparata in modo improvvisato e con la sempre più aperta opposizione del comando americano, preoccupato per un coinvolgimento militare troppo prolungato nell’area. Fin dall’inizio il fronte italiano ebbe un ruolo secondario, mentre le sorti della guerra si decidevano sul fronte orientale e in Normandia,

Progettato come un’operazione diversiva, con un impiego decisamente limitato di forze, lo sbarco in Italia e l’attiva partecipazione dell’esercito italiano nella lotta contro la Germania nazista poteva essere realizzato con più o meno successo, ma le conseguenze dell’occupazione tedesca e il ritardo nella liberazione dell’Italia, avvenimenti di primaria importanza per il popolo italiano, non costituivano una seria preoccupazione per gli alleati occidentali. Concentrati sul problema di una piena sconfitta della Germania nazista, gli angloamericani in quel momento non avevano e non potevano avere un grande interesse alla sorte dell’ex alleato della Germania.

Fu raggiunto l’obiettivo fondamentale, che era quello di far uscire l’Italia dalla guerra. Si deve però aggiungere che, se in rapporto alle forze impiegate il risultato fu positivo, rimangono dubbi sulla correttezza della strategia generale e sulla scelta di aprire un fronte marginale sostenuto da forze così esigue, mentre con un maggior impiego di truppe si sarebbe ottenuto il risultato di far ritirare i tedeschi, pur prescindendo dall’aiuto italiano.

La storiografia angloamericana ha aperto fin dall’immediato dopoguerra un dibattito, non ancora concluso, sulla preminenza data al secondo fronte e sul modo in cui fu condotta la campagna nel Mediterraneo. Rimane da chiedersi se un atteggiamento iniziale più aggressivo da parte delle forze angloamericane avrebbe potuto spingere i tedeschi a ritirarsi e rendere così possibile la rapida avanzata che tutti si aspettavano. Lo sbarco a Salerno fu molto vicino a concludersi con un disastro e la condotta prudente delle operazioni da parte di Eisenhower e di Alexander non fu esente da critiche anche in quel periodo.

Due settimane dopo lo sbarco, il generale Marshall espresse in un messaggio a Eisenhower tutta la propria insoddisfazione per la lentezza dell’avanzata, accusandolo di eccessiva prudenza e di aver dato ai tedeschi “troppo tempo per prepararsi”, rendendo così la strada per Roma lunga e difficile. Eisenhower rispose ricordando come prima dell’inizio delle operazioni fossero state vagliate diverse alternative e che la possibilità di uno sbarco nei pressi di Roma fosse stata esclusa. Ricordò anche le difficoltà incontrate in seguito all’imprevista resistenza tedesca.

Su tali premesse, concludeva riaffermando le scelte assunte, e la necessità di accettarne le conseguenze senza cercare di piegare il corso degli eventi. Un corso che doveva trasformare l’Italia in un campo di battaglia per un altro anno e mezzo. La decisione alleata di relegare l’Italia ad una posizione di importanza secondaria e quella del governo italiano di non organizzare una resistenza militare e un’attiva collaborazione con gli angloamericani fecero sì che l”iniziativa militare sul fronte italiano passasse nelle mani dei tedeschi.

Subito dopo il 25 luglio il comando tedesco si era posto il problema di lasciare l’Italia e aveva preparato sulle Alpi una linea di difesa, su cui le truppe si sarebbero potute ritirare: le divisioni affluite in Italia in quel periodo rimasero all’inizio nell’Italia settentrionale e a difesa dei confini, in attesa di uno sbarco angloamericano. Obbiettivo prioritario per ì tedeschi era mantenere l’occupazione dell’Italia settentrionale, sia per poter sfruttare le industrie e la manodopera italiana, sia per impedire un avvicinamento delle basi aeree alleate che avrebbe facilitato i bombardamenti sulla Germania e minacciato direttamente la presenza tedesca in Jugoslavia.

Soltanto dopo l’annuncio dell’armistizio, quando si resero conto del limitato potenziale offensivo delle forze alleate e della passività di quelle italiane, i tedeschi decisero di occupare anche l’Italia centro-meridionale. Così le speranze sia alleate che italiane che i tedeschi attuassero il piano di ritirata furono deluse.

Per quanto riguarda la parte italiana, è molto difficile arrivare a risposte definitive alle domande poste all’inizio, per le ragioni già accennate: l’inaffidabilità delle memorie dei protagonisti, la mancanza di una sufficiente documentazione, la sostanziale ambiguità e contraddittorietà delle fonti primarie. I verbali degli interrogatori, le relazioni e le memorie preparate per l’inchiesta militare sul comportamento degli ufficiali all’atto e dopo la proclamazione dell’armistizio, per la Commissione Palermo e infine per il processo del Tribunale Militare costituiscono una documentazione di enorme interesse, che però deve essere vagliata attentamente, e sottoposta a verifiche e confronti, per le numerose dichiarazioni false che vi sono contenute.

E’ anche però una miniera di informazioni, che sembrano essere sfuggite senza volerlo agli intervistati, i quali spesso ritornano su dichiarazioni appena fatte per correggerle o ritrattarle. Essa evidenzia, come caratteristica comune dei membri del governo Badoglio e del comando militare, una totale mancanza di senso di responsabilità e una parallela incapacità di comprendere i reali rapporti di forza tra un paese sconfitto e prostrato e i “vincitori”, una assurda pretesa a dare consigli, ad illuminare gli angloamericani per il “loro” interesse.

Nel dopoguerra tutti i dirigenti politici e militari italiani hanno sostenuto non solo di aver voluto raggiungere al più presto un armistizio con gli alleati, ma anche di aver considerato necessario un rivolgimento di fronte.  In realtà tale volontà comune non si manifestò. Le trattative per l’armistizio furono condotte fin dall’inizio con molta incertezza e in un clima di reciproco sospetto all’interno dei comandi militari e del governo.

Pur nella generale convinzione che la guerra ormai fosse persa, rimase l’illusione di poter far uscire il paese dal conflitto evitando uno scontro diretto con i tedeschi, da tutti considerata la prospettiva più temibile. Soprattutto, all’interno dei vertici militari l’atteggiamento prevalente era di opposizione ad un cambiamento di fronte e favorevole alla continuazione dell’alleanza. Diverse ragioni spiegano tale orientamento: dal timore di
prendere responsabilità personali alla paura per le conseguenze, dalla convinzione ideologica al senso dell’onore verso l’alleato. Soltanto il re, che costituiva l’unico punto di riferimento di tutte le forze politiche e aveva il controllo delle forze armate, avrebbe potuto teoricamente guidare un passaggio repentino dell’Italia dalla parte degli angloamericani.

In realtà, la sua personalità, il carattere indeciso, la ventennale convivenza e corresponsabilità con il fascismo, la profonda diffidenza nei confronti delle forze antifasciste, erano tutti elementi che rendevano molto improbabile una sua iniziativa, se non sotto la pressione di circostanze eccezionali. Per mancanza di capacità decisionale e per debolezza di carattere il re non era all’altezza del compito che si trovò ad affrontare.

Così, non solo non venne presa alcuna misura per un rivolgimento di fronte, ma fino alla fine continuò anche la preparazione militare per reagire al previsto sbarco alleato, scelta questa impossibile da giustificare con l’”esigenza della segretezza”. Il tentativo di evitare – o quanto meno limitare ad una parte del paese – l’occupazione tedesca con un’azione offensiva comportava una presa di posizione contro il proprio passato e anche rischi personali che il re e Badoglio non avevano nessuna intenzione di affrontare.

Ogni decisione venne ufficialmente presa dal re, anche quella di portare con sé nella fuga i ministri militari, e questo bastò a far sentire tutti liberati da ogni responsabilità per quello che sarebbe successo. Se però la decisione di mantenere il più assoluto segreto sia sulle trattative in corso sia sulla firma dell’armistizio prima dell’8 settembre può essere giustificato dalla necessità di non far trapelare niente ai tedeschi, rimane incomprensibile invece la decisione del Comando supremo e delle Stato maggiore dell’esercito dopo l’annuncio dell’armistizio di non emanare l’ordine di esecuzione della “Memoria 44”.

A quel punto vi fu anche un problema di scelta individuale e si verificò una differenza di comportamento sostanziale tra lo Stato maggiore della Marina e quello dell’Esercito. Mentre il primo continuò a funzionare, anche dopo la partenza di de Courten, lo Stato maggiore dell’Esercito, così come il Ministero deIla guerra e il Comando supremo, furono subito abbandonati dal personale e dai funzionari, in modo tale che le richieste di ordini provenienti dai comandi periferici, in Italia e fuori, non ebbero risposta.

La completa assenza di un’azione di comando subito dopo la proclamazione dell’armistizio fu considerata espressione della decisione presa al più alto livello, di non combattere contro i tedeschi e in concreto si tradusse nella parola d’ordine “tutti a casa”. In alcuni casi comandanti e soldati decisero di reagire ai tedeschi e di contrastare il loro ordine di consegnare le armi, ma fu una scelta individuale, molto più difficile da prendere che quella di obbedire a un comando, tanto più che si trattava di opporsi a un alleato di poche ore prima.

Per questo gli atti di resistenza, per quanto isolati, assumono un importanza fondamentale. La decisione di non dare l’ordine di reagire ai tedeschi presa dal governo Badoglio e dal Comando supremo fece perdere un’occasione che, indipendentemente dai risultati, avrebbe potuto migliorare lo status internazionale dell’Italia al tavolo della pace.

Soltanto partendo dal quadro che abbiamo delineato si può valutare la responsabilità in casi specifici e, in particolare,nel caso più clamoroso della mancata difesa di Roma. La decisione di non difendere Roma fu presa quasi subito, nella notte tra l’8 e il 9 settembre, di fronte alle prime avvisaglie di un’azione offensiva tedesca. In tale occasione un’azione decisa avrebbe avuto il significato di una scelta inequivocabile, qualunque fosse stato l’esito finale, e avrebbe potuto avere conseguenze enormi, come la preservazione della compattezza dell’esercito italiano e la partecipazione attiva alla lotta in corso degli angloamericani, il possibile ritiro dei tedeschi a nord della capitale e quindi anche una più rapida liberazione del paese.

Gli avvenimenti del settembre 1943 dimostrarono che venti anni di regime totalitario avevano annullato ogni capacità della classe dirigente, e particolarmente dei quadri militari italiani, di assumere responsabilità e prendere decisioni. Furono anche la prova evidente della incapacità della monarchia a guidare il paese fuori e oltre l’esperienza fascista. Il modo nel quale avvenne la fuga del re e del governo da Roma al momento dell’armistizio fu probabilmente determinante nel far prevalere il voto antimonarchico al referendum del 1946.

I costi del crollo dell’autorità statale in quel momento sono stati pagati dall’intero popolo italiano. Se con la deposizione di Mussolini la monarchia aveva ottenuto il consenso della maggioranza della popolazione, questa unità nazionale si spezzò con l’8 settembre. La scelta di un netto distacco dal passato, che il re Vittorio Emanuele III non era riuscito a fare, ricadde sull’intera popolazione. La maggioranza mantenne l’atteggiamento attendista, che aveva caratterizzato gli ultimi anni di guerra, cercando di sopravvivere fino alla conclusione del conflitto e solo una minoranza rispose al richiamo del rinato partito fascista all“‘onore della patria” e alla fedeltà alla alleanza con la Germania, ormai attestata come forza di occupazione nel paese.

L’8 settembre costituì però anche un importante punto di svolta perché rappresentò l’occasione per un rilancio dei valori dell’opposizione antifascista. Il vuoto di potere venutosi a creare con il tracollo di tutta una classe dirigente costrinse una parte della popolazione a fare un bilancio del disastro cui il regime aveva portato il paese. Non soltanto gli esponenti dell’opposizione antifascista, che lo stesso 9 settembre dettero vita al
Comitato di Liberazione Nazionale, ma anche molta gente che fino a quel momento aveva appoggiato il regime fascista, di fronte alla occupazione  tedesca fu spinta gradualmente ad una condanna della guerra fascista e alla adesione al movimento di resistenza.

Si trattava sempre di una minoranza, ma che poté diventare espressione, nel governo antifascista di Bonomi, della volontà di rinnovamento e di riconquista della democrazia del paese. Il trauma dell’armistizio e la frattura nel paese che ne seguì non sono stati però totalmente superati, non soltanto perche non è stata fatta chiarezza su quello che veramente successe e non sono state accertate le responsabilità individuali, ma perché il nuovo stato, fondato sulla resistenza, intesa artificiosamente come “lotta di popolo”, ha preferito rimuovere perfino il ricordo della tragedia dell’8 settembre, simbolo della sconfitta militare e della catastrofe morale che avevano coinvolto tutto il paese, e ricordare soltanto il 9 settembre come l’inizio della nuova Italia nata dal movimento di liberazione.

Elena Aga Rossi

*Elena Aga Rossi si è laureata in Lettere e Filosofia presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” con una tesi sul movimento Giustizia e Libertà e sulle origini del Partito d’Azione, con relatore il professor Guido Verucci. Durante la preparazione della tesi ha conosciuto lo storico Renzo De Felice, del quale è poi diventata assistente. Ha successivamente insegnato nelle università di Padova, Pisa, Palermo e Roma; ha inoltre svolto ricerche presso il Woodrow Wilson International Center for Scholars, l’Università di Oxford, la British Academy of Sciences, il Center for European Studies, l’Università di Harvard e la Stanford University. È vedova dello storico russo Viktor Zaslavskij, con il quale nel 1997 ha pubblicato il saggio Togliatti e Stalin, basato su documenti degli archivi sovietici fino ad allora inediti nel quale sostiene, tra l’altro, che la “svolta di Salerno” – con cui il Partito Comunista Italiano abbandonò la pregiudiziale antimonarchica ed entrò nel governo Badoglio II – non derivò da una decisione autonoma di Palmiro Togliatti, bensì da un ordine diretto di Stalin. Per questo lavoro, nel 1998 ha ricevuto il premio Acqui Storia. Il 22 aprile 2012 è stata insignita del Premio Renato Benedetto Fabrizi dell’ANPI.

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