8 SETTEMBRE 1943, L’INGANNO RECIPROCO – 1

a cura di Cornelio Galas

PUBBLICAZIONI DEGLI ARCHIVI DI STATO

L’ARMISTIZIO TRA L’ITALIA E GLI ANGLOAMERICANI

RETROSCENA, SEGRETI E FALSE VERITA’

 

Elena Aga Rossi

di Elena Aga Rossi *

La conclusione dell’armistizio tra l’Italia e le potenze alleate ha segnato un momento di rottura sia per le vicende interne del paese che, a livello internazionale, per le sorti del conflitto: essa ha rappresentato contemporaneamente la disgregazione della vecchia classe dirigente fascista e il primo segnale dell’imminente crollo dell’Asse. Nello stesso tempo l’8 settembre è divenuto nella memoria collettiva uno dei momenti più tragici nella storia dell’Italia unita. L’annuncio dell’armistizio fu seguito dalla fuga del re, del governo e del Comando supremo da Roma e dalla dissoluzione dell’esercito.

Le conseguenze per l’Italia furono drammatiche. La fine della breve illusione di potersi schierare tempestivamente dalla parte degli angloamericani, togliendosi di dosso il marchio di nemico sconfitto, espose l’intero paese alla violenta reazione tedesca, con la deportazione e l’internamento in Germania di circa 600.000 militari italiani e l’occupazione nazista di gran parte del paese, accompagnata da sempre più violente repressioni sulla popolazione. Per quasi due anni il paese divenne un enorme campo di battaglia tra due eserciti contrapposti.

La dinamica degli avvenimenti e la serie di decisioni politiche che portarono le due parti alla conclusione dell’armistizio e le sue conseguenze militari e politiche meritano dunque di essere studiate nella loro complessità. Sono moltissime le domande che ancora attendono una risposta definitiva. Quali furono gli impegni reciprocamente assunti dalle due parti al momento della firma dell’armistizio? Quali furono gli obiettivi che i governi si posero e quali furono quelli raggiunti? Come si spiega la totale mancanza di leadership della classe dirigente politica e militare italiana in questo momento cruciale della sua storia? Quale politica seguirono gli alleati?

E ancora, sarebbero stati possibili un cambiamento di fronte e una effettiva collaborazione tra gli italiani e gli angloamericani, e se erano possibili perché non vennero attuati? Perché i tempi previsti dai piani militari angloamericani per la liberazione del nostro paese si rivelarono errati? Si poteva avere un esito migliore per l’Italia?

Molti aspetti delle vicende che portarono il re e Badoglio alla decisione di uscire dalla guerra e dei complessi negoziati che si conclusero con la firma di due documenti di armistizio tra l’Italia e i governi delle Nazioni Unite, non sono stati ancora pienamente chiariti dalla storiografia e sono stati interpretati in modi diversi. Per molti anni sia gli impegni assunti allora dalle due parti nella reciproca diffidenza, aggravata dalla disinformazione e da errate valutazioni della reale situazione militare, sia la condotta del governo Badoglio, hanno continuato ad essere oggetto in Italia di controversie e di dispute interpretative.

L’evidente collegamento tra le vicende dell’armistizio, la mancata difesa di Roma, la dissoluzione dell’esercito italiano e l’occupazione tedesca ha infatti posto il problema delle responsabilità del governo e della monarchia, nonché delle possibili alternative allora praticabili. L’esigenza di far luce su quegli avvenimenti spinse già nell’autunno del 1944 il primo governo presieduto da un antifascista, Ivanoe Bonomi, ad aprire un’inchiesta, anche se gli angloamericani fecero limitare l’indagine alla questione della mancata difesa di Roma per impedire che fossero messi sotto processo i firmatari dell’armistizio.

Mario Palermo

La commissione, presieduta da un civile, l’avvocato Mario Palermo, con la partecipazione dei generali Pietro Ago e Luigi Amantea, mise in luce le evidenti responsabilità del governo Badoglio, del re e del Comando supremo nel collasso delle forze armate e nella resa di Roma ai tedeschi, ma il suo lavoro non si tradusse in una incriminazione formale. Parallelamente ai lavori della commissione si muoveva anche l’inchiesta, iniziata fin dal dicembre 1943 dal capo di Stato maggiore generale, gen. Giovanni Messe, per incarico di Badoglio, sul “comportamento degli ufficiali all’atto e dopo la proclamazione dell’armistizio”, ma gli esiti negativi degli accertamenti tradirono l’intento di nascondere più che di far luce sulla verità.

Giovanni Messe

Queste due inchieste produssero una enorme mole di materiale, fondamentale per ricostruire gli avvenimenti di quei giorni, ma anche per cogliere, attraverso le testimonianze contraddittorie dei protagonisti e le reticenti ammissioni, l’intento dei maggiori responsabili di falsificare sistematicamente i fatti per escludere ogni responsabilità personale e per accreditare la tesi che l’annuncio dell’armistizio l’8 settembre aveva colto governo e comandi militari del tutto di sorpresa.

Nelle migliaia di pagine che descrivono le vicende di quei giorni, dalle prime discussioni alle scelte sulle misure da prendere, fino alla fuga delle più alte cariche dello stato e allo sbandamento dell’esercito, lasciato senza ordini e alla mercé dei tedeschi, nessuno dei principali responsabili ammette anche una parziale colpevolezza per questa catastrofe nazionale. Nel 1947 la vicenda della mancata difesa di Roma fu riesaminata per l’ultima volta da un tribunale militare che si limitò ad indagare sull’operato dei generali Carboni e Roatta, per poi concludere con delle assoluzioni. La sentenza del Tribunale, dunque, non pose fine alla distorsione dei fatti e non fece piena luce sulle falsità che avevano contribuito ad offuscare l’intera vicenda.

La memorialistica sull’armistizio risulta in buona parte deliberatamente distorta; deve quindi essere usata con molta cautela. Quasi tutti i protagonisti hanno dato alle stampe la loro versione degli avvenimenti di quel periodo, spesso più con l’intento di autodifendersi, scaricando le accuse su altri, che di portare un contributo all’accertamento della verità. Un’altra ragione delle difficoltà di giungere ad una convincente ricostruzione storica risiede nella scarsità di documentazione italiana, soltanto parzialmente addebitabile alla necessità di agire in segreto sia nelle fasi dei primi sondaggi che durante i negoziati.

Mario Roatta

Tra l’altro, molti documenti che potevano cadere in mano dei tedeschi o degli angloamericani, o comunque giudicati compromettenti, furono distrutti, e altri sono spariti. La documentazione esistente è conservata soprattutto presso l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, ma essa è rimasta chiusa alla consultazione per molto tempo, tanto che non si era avvertito il bisogno di un inventario, e soltanto negli ultimi anni è stata messa a disposizione degli studiosi.

Sono forse queste le cause oggettive per cui la storiografia italiana sull’8 settembre non è andata oltre la ricostruzione di aspetti parziali, mentre manca ancora un’esposizione complessiva a carattere scientifico. Inoltre, sulla scia degli scritti memorialistici dei protagonisti, pubblicati nell’immediato dopoguerra, i cui limiti sono già stati menzionati, la storiografia ha troppo spesso continuato ad essere “di parte”: alcuni autori hanno accusato il re e il governo Badoglio della dissoluzione dell’esercito, altri per giustificare la condotta della monarchia hanno sostenuto la tesi di un inganno perpetrato dagli angloamericani a danno degli italiani.

La valutazione e l’interpretazione dei rapporti che precedettero la firma dell’armistizio tra le autorità italiane e gli angloamericani, rappresentano una precondizione essenziale per arrivare ad un giudizio storico sull’azione del governo italiano al momento della resa. Per una ricostruzione oggettiva di quelle vicende si deve sottolineare, data l’insufficiente documentazione da parte italiana, l’importanza degli studi storici e della documentazione archivistica inglese e americana. Essa fu utilizzata per la prima volta a metà degli anni sessanta nel volume sullo sbarco in Sicilia e sulla resa italiana di GarIand e McGaw Smyth, Sicily and the Surrender 0f Italy, che rimane ancora a tanti anni di distanza lo studio più completo sull’armistizio e gli alleati.

Su questa documentazione si fondò subito dopo Mario Toscano per il volume Dal 25 luglio all’8 settembre. Negli anni seguenti i governi inglese e americano hanno pubblicato vari altri studi utili per la ricostruzione dei negoziati che portarono all’armistizio. Particolarmente ricco è divenuto il settore della memorialistica anglosassone: dopo i volumi apparsi nell’immediato dopoguerra un altro ciclo si è aperto negli anni sessanta, quando sono state pubblicate le memorie del periodo della guerra di alcuni dei maggiori protagonisti di parte alleata: Robert Murphy, Harold Macmillan, Kenneth Strong e Harold Nicolson; ad esse hanno fatto seguito negli anni settanta e ottanta diari di Alexander Cadogan, Harold Macmillan e Robert Lockhart.

Questa ricca e più o meno recente storiografia non è molto utilizzata in Italia, così come è poco conosciuta la vasta documentazione esistente negli archivi inglesi e americani. In mancanza di un approfondito confronto con le fonti angloamericane, sono state comunemente accettate versioni degli avvenimenti che risalgono ad alcuni protagonisti interessati a difendere le proprie azioni. Interpretazioni parziali e perfino falsificazioni della verità avanzate fin dal primo momento sono penetrate così profondamente nella coscienza collettiva da diventare luoghi comuni, a volte accettati acriticamente anche dalla storiografia italiana.

Per superare una tale diffusa disinformazione, un’analisi storica dell’armistizio italiano non può prescindere dal contesto internazionale e da un confronto tra le fonti italiane e quelle angloamericane, più affidabili di quelle italiane, tanto più che oggi esiste la possibilità di ricostruire pienamente il processo decisionale alleato e lo sviluppo delle diverse posizioni esistenti.

Kenneth Strong

L’insufficienza e la parzialità degli studi su un momento così cruciale della storia italiana rendono necessario tornare ai documenti per rileggerli con occhi nuovi. Anche le fonti archivistiche italiane possono chiarire, come vedremo, aspetti essenziali di quelle vicende. Mi propongo di partire dalle posizioni iniziali italiane e angloamericane, e di seguirne l’evoluzione, cercando di chiarire gli obiettivi che le due parti si prefiggevano e di valutare, infine, i risultati raggiunti.

Analizzando l’evoluzione della politica angloamericana verso l’Italia dal suo ingresso in guerra fino alla firma dei due armistizi, è utile distinguere quattro fasi:

1) la politica inglese negli anni 1940-42 nei confronti dell’Italia, considerata come l’anello più debole dell’Asse, da sconfiggere militarmente o con una pace separata;
2) i sondaggi italiani per uscire dalla guerra, dalla conferenza di Casablanca del gennaio 1943 allo sbarco in Sicilia e le reazioni inglesi;
3) la politica angloamericana dopo la caduta di Mussolini e le trattative per un armistizio;
4) la proclamazione dell’armistizio e le conseguenze militari e politiche della mancata collaborazione italiana.

L ‘Italia, “l’anello più debole dell’Asse “, 1940-1942

Le discussioni su come eliminare dalla guerra l’Italia, giustamente considerata “the weakest link” dell’Asse, erano incominciate all’interno del governo inglese all’indomani stesso dell’ingresso italiano nel conflitto. Lo Stato maggiore inglese pose immediatamente come obiettivo prioritario l’eliminazione dell’Italia dalla guerra e fece predisporre una serie di piani nei quali erano prese in considerazione differenti possibilità, da una pace separata al crollo interno.

E’ interessante notare come l’analisi della situazione e i piani per “knock Italy aut of the war” attraverso pesanti bombardamenti e un’intensa azione di propaganda, rimasero quasi immutati dal 1940 fino al 1943, nonostante l’evoluzione della situazione militare. Cambiò invece radicalmente l’atteggiamento del governo inglese riguardo al futuro dell’Italia.

Per un breve periodo, tra la fine del 1940 e l’inizio del 1941, quando la Gran Bretagna si trovò a combattere da sola contro la Germania, l’estrema necessità di trovare appoggi esterni e le prime prove negative dell’esercito italiano – il disastroso esito della campagna di Grecia, la distruzione della flotta a Taranto e le sconfitte in Africa – spinsero il governo inglese a prendere in esame l’eventualità di una pace separata con l’Italia. Tra i possibili scenari della situazione italiana, si esaminarono varie ipotesi, tutte fondate su una sopravvalutazione dell’opposizione al regime, tra cui la defezione dell’Italia dall’Asse, l’emergere di una attiva resistenza alla possibile occupazione tedesca del paese e il passaggio di parte della flotta e della aviazione italiana dalla parte degli inglesi.

Confidando nell’eventualità che, con un aiuto opportuno, il regime fascista potesse essere rovesciato, il governo inglese discusse una serie di iniziative, per lo più suggerite dai servizi
segreti (lo Special Operations Executive, SOE): dalla creazione di una “legione Garibaldi”, cioè di un esercito volontario reclutato tra i prigionieri italiani caduti in Africa in mano inglese, alla istituzione di una libera colonia italiana in Cirenaica, con lo stesso trattamento delle colonie francesi, al progetto di far sbarcare clandestinamente in Sicilia e in Sardegna degli antifascisti militanti che avrebbero dovuto preparare il terreno per uno sbarco alleato e costituire i “nuclei di una libera Italia”, fino all’idea di indurre alcuni comandanti della Marina a consegnare le navi, per denaro o per ideali antifascisti, in cambio di un impegno a far uscire dall’Italia le loro famiglie.

Nei primi mesi del 1941 agenti inglesi compirono vari atti di sabotaggio nell’Italia meridionale. Churchill, che da poco aveva assunto la guida del governo inglese, fu tra i più vivaci sostenitori dell’idea di cercare di separare l’Italia dalla Germania. In questo contesto il discorso del dicembre 1940, nel quale il primo ministro inglese dichiarava che Mussolini era l’unico responsabile della decisione di entrare in guerra, non ebbe un significato soltanto propagandistico, ma era invece parte di un piano per spingere gli italiani a dissociarsi dal regime. In particolare egli appoggiò entusiasticamente la proposta di una legione Garibaldi, che continuò a venire discussa per tutta la primavera del 1941.

Con il cambiamento della situazione militare dovuta alla controffensiva di Rommel nella primavera del 1941, svanì la speranza di un’uscita dell’Italia dalla guerra. Poco dopo, l’attacco tedesco all’URSS del giugno 1941 chiuse il periodo drammatico dell’isolamento militare della Gran Bretagna, che da quel momento divenne sempre meno disponibile a fare concessioni all’Italia in cambio di un suo ritiro dal conflitto.

All’interno del governo inglese si vennero chiarendo due posizioni contrastanti sulla politica verso l’Italia. La possibilità di una pace separata venne sempre meno presa in considerazione dal Foreign Office e dal Gabinetto di guerra, mentre continuò ad essere sostenuta soltanto da Churchill e da vecchi fautori dell”‘appeasement”, ormai emarginati, come l’ex ministro degli esteri Samuel Hoare, divenuto nel frattempo ambasciatore a Madrid, e l’ex ambasciatore a Roma , Percy Loraine.

Sir Anthony Eden

La posizione del Foreign Office e di Anthony Eden prese il sopravvento e venne adottata una “linea dura”, centrata essenzialmente su un’idea : gli italiani dovevano rendersi conto che l’ alternativa offerta era “di affondare o di sopravvivere”. Qualunque promessa sul futuro del paese veniva , dunque, esclusa. La posizione inglese “dominante” è chiaramente espressa in un memorandum del Gabinetto di guerra del 20 novembre 1942, preparato da Eden, nel quale tra le due possibilità di una pace separata o di un collasso interno, seguito da una occupazione del paese da parte dei tedeschi, si preferiva la seconda.

La ragione avanzata era che l’Italia avrebbe così costituito un peso per la Germania, mentre se fosse divenuta un’alleata avrebbe potuto guadagnare una posizione indipendente al tavolo della pace. Questa scelta rifletteva un obiettivo politico di lungo termine nei confronti dell’Italia: il governo inglese intendeva imporre una pace punitiva che impedisse a qualunque futuro governo italiano di avanzare richieste riguardanti la propria integrità territoriale o il mantenimento delle colonie e eventualmente ritornare a minacciare la potenza inglese nel Mediterraneo.

Mussolini, Ciano e Chamberlain

Eden mostrò sempre un astio particolare nei confronti degli italiani ed impose un rovesciamento della politica seguita da Chamberlain, di “appease the minor dictator” (placare il dittatore minore), che nel 1938 l’aveva spinto alle dimissioni da segretario agli esteri. Eden motivò la sua opposizione ad una pace separata, affermando tra l’altro che le forze italiane non costituivano un pericolo per gli inglesi e, in caso di un rovesciamento delle alleanze, non sarebbero state comunque in grado di offrire un apporto militare significativo.

Churchill espresse il proprio dissenso, dichiarandosi favorevole a tentare  la via di una pace separata, per evitare le gravi conseguenze di un’occupazione tedesca dell’Italia, ma la sua posizione rimase minoritaria. Quando il governo inglese ricevette i primi approcci italiani per esplorare la possibilità di una pace separata, Bruce Lockhart annotò nel suo diario con allarme che il primo ministro stava “giocando con l’idea di ‘Italian Darlans”‘. Questo in riferimento all’ammiraglio collaborazionista François Darlan e al suo improvviso riconoscimento da parte alleata come capo dell’amministrazione francese al momento dello sbarco in Nord Africa nel novembre 1942 per bloccare la resistenza francese.

François Darlan

Fu invece l’atteggiamento rigido di Eden a divenire la posizione ufficiale del governo inglese, prima della decisione alleata alla conferenza di Casablanca nel gennaio 1943 di adottare il principio della resa incondizionata. Di fatto, si incominciò ad assumere un atteggiamento nettamente intransigente fin dall’inizio del 1942, anche se ad esso venne data pubblicità solo al momento della proclamazione di principio di Casablanca.

Gli Stati Uniti si erano mostrati fin dall’inizio più disponibili e anzi favorevoli ad una pace separata con l’Italia, ma anche da parte loro vi fu una svolta verso una posizione meno accomodante dopo i gravi insuccessi italiani dell’autunno 1942. Così, se le sconfitte italiane in Africa della seconda metà del 1942 rafforzavano una linea dura e contraria ad ogni concessione da parte degli alleati occidentali, da parte italiana le stesse sconfitte, e in particolare quella di El Alamein, determinavano una serie di timidi tentativi di stabilire contatti con le forze alleate.

Dalla conferenza di Casablanca allo sbarco in Sicilia: principio della resa incondizionata e fallimento dei tentativi italiani per una pace separata

Esiste ormai un’ampia letteratura sulle diverse iniziative italiane per sondare le intenzioni alleate su una eventuale pace separata dell’Italia: sarebbe quindi inutile rifare la storia dei diversi emissari italiani. Ci limiteremo invece a indicare i loro obiettivi e a metterli a confronto con quelli dei governi alleati.

In generale i promotori dei sondaggi appartenevano quasi tutti alla classe dirigente del regime, e furono spinti a muoversi dalla sempre più diffusa consapevolezza che il paese stava andando verso la catastrofe. La maggior parte di queste iniziative proveniva da ambienti legati alla monarchia, anche se indipendenti l’uno dall’altro. Per tutto questo periodo gli italiani si rivolsero solo agli inglesi, nella infondata illusione che essi sarebbero stati più favorevoli alla monarchia, e anche per la maggiore facilità di ristabilire i contatti esistenti prima della decisione italiana di entrare in guerra a fianco della Germania. Anche
quando si offrì l’occasione di stabilire un contatto diretto con il governo degli Stati Uniti, durante i quaranta cinque giorni, questa venne lasciata cadere.
.
A volte le informazioni su queste iniziative provengono solo dagli archivi inglesi, e non trovano corrispondenza nelle fonti italiane. Così, secondo i servizi segreti inglesi, Badoglio cercò di stabilire dei contatti con loro fin dal maggio 1942, ma non vi sono conferme da parte di Badoglio o da altre fonti italiane, anche se egli era indicato in Italia come il più probabile successore di Mussolini in seguito ad un colpo militare.

Vittorio Emanuele III con il maresciallo Badoglio

Altri nomi ricorrenti nelle relazioni inglesi sono quelli del duca Aimone d’Aosta, del generale Enrico Caviglia, e di altri personaggi minori. Un caso a parte è quello della principessa Maria Josè, che si rivolse a Salazar come mediatore, ottenendo che questi perorasse direttamente la causa italiana con gli inglesi proprio alla vigilia della riunione del Gran Consiglio.

Nei primi mesi del 1943, con l’intensificarsi dei bombardamenti sui centri industriali del nord e sulle grandi città, e con le sconfitte in Africa, divenne sempre più diffusa anche la convinzione che la guerra era ormai persa. Si moltiplicarono gli incontri sia tra i dirigenti del regime che tra gli oppositori per trovare una via di uscita dal conflitto, ma il sentimento prevalente rimase però quello di impotenza. La fragilità delle iniziative che pur vennero intraprese in quel periodo era dovuta al fatto che nessuno dei promotori poteva parlare veramente in nome del re.

Mussolini saluta il re Vittorio Emanuele III, ma l’inchino e la stretta di mano erano vietati dal regime: la foto fu censurata.

Vittorio Emanuele III era una persona “debole, indecisa e troppo (…) deferente verso il governo dell’on. Mussolini”. Egli lasciò che da più parti si nutrissero speranze di un suo intervento per staccare l’Italia dalla Germania, senza però prendere alcuna iniziativa. E’ anche probabile che il re continuasse ad illudersi sul potenziale militare dell’Italia, nella convinzione che in caso di uno sbarco angloamericano, l’esercito italiano avrebbe resistit0.

Egli non solo sottovalutava la potenza militare alleata, ma disprezzava anche inglesi e americani e non mostrò quindi alcun interesse alla proposta di stabilire dei contatti per una pace separata, prima della estromissione di Mussolini. Quanto alla situazione interna, fin dal giugno Acquarone, ministro della Real Casa e una delle poche persone a potersi fare interprete delle intenzioni del re, fece il nome di Badoglio come probabile successore di Mussolini e si mostrò convinto che non ci sarebbero stati problemi né con i gerarchi fascisti “pronti a mollare Mussolini”, né con gli antifascisti, che erano “quattro gatti”, e che quindi il paese si sarebbe raccolto intorno alla monarchia.

Pietro d’Acquarone

Per quanto riguarda la posizione di Mussolini, è noto che egli ricevette delle pressioni dal sottosegretario agli esteri, Giuseppe Bastianini, prima per tentare una uscita dal conflitto, concordata con ungheresi e romeni, e, nell’ultimo periodo, per stabilire contatti con gli angloamericani Queste iniziative di Bastianini erano tanto complesse quanto velleitarie, perché presupponevano l’accettazione tedesca di una pace separata tra gli stati satelliti e gli angloamericani. Alcuni dirigenti fascisti si erano mossi all’insaputa di Mussolini: Dino Grandi, il futuro promotore del colpo di stato del 25 luglio, aveva tentato in un primo tempo di puntare su una “crisi costituzionale”, e fino alla fine sperò che il re, una volta estromesso Mussolini, accettasse un immediato rovesciamento di alleanze, di cui egli poteva farsi portavoce presso il governo inglese.

Dino Grandi

Anche Ciano aveva cercato di stabilire contatti con gli inglesi. E’ probabile che Mussolini fosse riluttante a chiedere una pace separata agli angloamericani, considerandola come un “tradimento” dell’alleato, ma nello stesso tempo era forse l’unico ad avere il potere e la capacità di prendere l’iniziativa: secondo Grandi, i dirigenti fascisti erano prigionieri di Mussolini proprio come gli antifascisti confinati nelle isole.

Alla conferenza tra Roosevelt e Churchill che si era tenuta a Casablanca nel gennaio del 1943 erano state prese due decisioni di grande importanza per l’Italia: l’adozione del principio della resa incondizionata e la scelta della Sicilia come successiva tappa dell’offensiva alleata. E’ difficile dire se nel caso italiano l’adozione della resa incondizionata abbia impedito un tentativo diretto di Mussolini o di persone a lui vicine per arrivare ad una pace separata. Non è da escludere che Mussolini condividesse l’opinione diffusa che ogni iniziativa di persone strettamente legate al fascismo sarebbe stata respinta opinione che non trova riscontro nella posizione del governo britannico.

Conferenza di Casablanca 1943

E’ importante ricordare che Mussolini fino all’ultimo momento rimase orientato verso una pace separata non con gli angloamericani, ma con l’Unione Sovietica, in modo che l’Asse potesse concentrare tutte le sue forze nel Mediterraneo, e cercò più volte di convincere Hitler che questa sarebbe stata la soluzione migliore. Tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943
tale piano aveva avuto un concreto fondamento e pertanto aveva costituito una delle maggiori preoccupazioni degli angloamericani, ma era ormai meno probabile dopo le vittorie sovietiche della primavera-estate del 1943, che culminarono nella battaglia di Kursk.

L’idea di una pace separata tra la Germania e l’URSS continuò a dominare i piani di Mussolini, divenendo quasi un’ ossessione, tanto che appena quattro ore prima del suo arresto egli sollecitò dall’ambasciatore giapponese Hidaka un intervento di mediazione del governo giapponese. Anche dopo la caduta di Mussolini l’ipotesi di pace separata con l’URSS continuò ad essere considerata possibile, sia dal governo italiano che dagli angloamericani.

Autorità ricevono l’ambasciatore giapponese Hidaka al suo arrivo alla stazione Termini
data: 21 aprile 1943

Anche da parte antifascista e in particolare negli ambienti dell’emigrazione si cercò di stabilire contatti sia con gli inglesi che con gli americani, per trovare una soluzione alla crisi italiana, ma con risultati poco apprezzabili. Il tentativo più concreto fu fatto da Lussu, che offrì ai servizi segreti inglesi di tornare in Italia per lanciare un movimento dì guerriglia in Sardegna. Lussu chiedeva però in cambio dal governo inglese l’impegno a mantenere l’integrità territoriale italiana, salvo piccole modifiche di frontiera, ma il Foreign Office decise “senza esitare che non ne valeva la pena”.

Una risposta più possibilista fu data a un emissario di Lussu, Dino Gentili, dal Dipartimento di Stato americano, ma tutti i piani di concreta collaborazione presentati dagli antifascisti rimasero sulla carta. Anche all’interno del paese esponenti del Partito d’azione si illusero di poter costituire per gli alleati un’alternativa democratica alla congiura di palazzo che si stava delineando, ma il governo inglese non mostrò alcun interesse a stabilire contatti più stretti con il gruppo degli antifascisti. In realtà, da parte inglese, il principio della resa incondizionata dette una giustificazione alla posizione di intransigenza già adottata in precedenza.

Emilio Lussu

Il governo inglese, e Eden in particolare, decise di non perseguire nessuno dei sondaggi avviati dagli italiani in paesi neutrali perché, come abbiamo visto, non voleva venire a patti con un governo italiano, ma preferiva puntare sulla totale sconfitta dell’Italia. Non vi era invece alcuna pregiudiziale ideologica nei confronti di personalità del regime fascista, tanto che l’unico nome su cui il governo inglese assunse una posizione possibilista fu quello di Grandi.

In tutto questo periodo il governo inglese e in particolare il Foreign Office riuscì a mantenere il quasi totale monopolio dei contatti con gli italiani, grazie anche alla scelta americana di lasciare gestire gli affari europei ai britannici. Inoltre, il Foreign Office non solo bloccò ogni iniziativa, ma cercò di impedire che gli emissari italiani si rivolgessero agli americani, nel timore che questi ultimi assumessero una linea di maggiore disponibilità.

Churchill e Roosevelt

.
Si può a questo punto concludere, tenendo conto sia dell’atteggiamento dominante inglese che della mancanza di determinazione da parte italiana, che dalla metà del 1942 alla caduta di Mussolini nel luglio del 1943, non vi fu alcuna possibilità concreta di arrivare ad una pace separata tra le potenze alleate e l’Italia.

Dalla documentazione inglese risulta anche che il Foreign Office continuò a puntare non su trattative diplomatiche, ma sulla eventualità di un crollo interno dell’Italia. Tale previsione era suffragata dalle relazioni provenienti da diverse fonti, e in particolare dal servizio segreto inglese, sulla disintegrazione del morale della popolazione italiana, sulla sua crescente stanchezza per una guerra ormai considerata perduta, sul disfattismo dilagante anche nell’esercito.

Armistizio di Cassibile 1943: Castellano e Eisenhower

Il Foreign Office si oppose decisamente alle sempre più insistenti proposte provenienti dal SOE e dal Quartier generale alleato di Algeri di ammorbidire il tono della propaganda verso l’Italia in modo da incoraggiare gli italiani a chiedere la resa. Infine, alla vigilia dello sbarco in Sicilia, dopo un braccio di ferro tra il comando di Eisenhower e il governo inglese, si arrivò alla soluzione di compromesso di modificare la propaganda in senso più favorevole agli italiani.

Al momento dello sbarco, effettuato nella notte tra il 9 e il 10 luglio, l’uscita dell’Italia dalla guerra dipendeva ormai totalmente dall’imminente sconfitta militare. Tutti si rendevano conto che l’Italia era definitivamente costretta sulla difensiva, che presto poteva iniziare l’occupazione della penisola e che le difese antiaeree non erano in grado di impedire i pesanti bombardamenti che colpivano le maggiori città e i centri industriali. Apparvero i primi segnali di una disintegrazione dell’esercito. Non si trattava solo della condotta delle truppe in Sicilia, dove molti reparti si arresero senza combattere: il Comando supremo italiano non sapeva ormai come affrontare il fenomeno diffuso delle diserzioni e della demoralizzazione, che si stava estendendo agli altri fronti.

I riflessi di questa situazione filtrarono fino ai massimi livelli dei governi alleati. A metà luglio Churchill informò con evidente compiacimento Roosevelt di approcci provenienti da comandanti delle truppe italiane nei Balcani e in Grecia e di movimenti di truppe tedesche per rinforzare quell’area. Roosevelt rispondendo qualche gi0rno dopo confermava che dalle informazioni in suo possesso, provenienti dal servizio segreto americano (l’ Office of Strategie Services, OSS) gli italiani non avrebbero fatto resistenza in caso di attacco da parte alleata, anche perché l’alternativa era quella di essere massacrati dai greci e dagli slavi.

La caduta di Mussolini

La caduta di Mussolini il 25 luglio segnò una nuova fase nei rapporti tra l’Italia e le potenze alleate. Essa fu il risultato di due successive iniziative: il voto di sfiducia del Gran Consiglio, il massimo organo del fascismo, e la decisione del re Vittorio Emanuele di chiedere le dimissioni al duce. L’obiettivo comune ai promotori del colpo di stato era quello di far uscire il paese da una guerra ormai persa, sacrificando Mussolini, pur mantenendo in vita il regime da lui creato.

Il nuovo governo guidato dal generale Badoglio si trovò a dover scegliere fra tre soluzioni:
1) denunciare la fine dell’alleanza con la Germania e attuare immediatamente un passaggio di fronte, ponendosi a fianco degli angloamericani;
2) non rompere l’alleanza con la Germania, ma tentare di convincere i tedeschi a non opporsi ad una pace separata tra l’Italia e gli angloamericani;
3) fingere di voler continuare la guerra a fianco della Germania iniziando nello stesso tempo le trattative con gli angloamericani per una resa.

Fu immediatamente scartata la prima strada, proposta da Dino Grandi, non solo perché avrebbe implicato uno scontro diretto e immediato con i tedeschi, senza l’aiuto degli angloamericani, ma anche perché avrebbe significato una rottura totale con un passato del quale sia il re che Badoglio erano non solo compartecipi, ma anche corresponsabili. Non si scelse però nemmeno tra le altre due possibilità, ma si cercò di perseguire entrambe contemporaneamente. Si sperò di far accettare ai tedeschi un ritiro dell’Italia dal conflitto, in cambio del mantenimento della neutralità e del graduale passaggio ai tedeschi del controllo del fronte nei Balcani e in Grecia. Nello stesso tempo si stabilirono contatti con gli inglesi.

Nei giorni immediatamente seguenti il 25 luglio la situazione si complicò ulteriormente. Sul fronte interno la temuta reazione fascista alla caduta di Mussolini non si verificò e il partito sembrò dissolversi nel nulla. Vi fu invece un’immediata esplosione di gioia della popolazione, che interpretò le dimissioni di Mussolini come un segnale dell’imminente uscita dell’Italia dalla guerra. Alle iniziali manifestazioni spontanee in favore della pace e della monarchia seguirono le prime richieste politiche e una serie di scioperi.

La reazione del governo e delle autorità militari, preoccupati per la eventualità della nascita di un movimento rivoluzionario, fu immediata. Il generale Roatta, capo di Stato maggiore dell’esercito, emanò il 26 luglio una direttiva per reprimere qualunque manifestazione che potesse turbare l’ordine pubblico, ordinando ai soldati di sparare a “livello di uomo”. L’ordine fu eseguito contro dimostranti che chiedevano la liberazione dei
prigionieri politici e la fine della guerra, provocando diverse vittime.

Nello stesso tempo, i tedeschi avevano reagito alla caduta di Mussolini facendo affluire in Italia, subito dopo il 25 luglio, circa dieci divisioni, che occuparono tra l’altro posti di blocco alle frontiere e centrali elettriche senza chiedere alcuna autorizzazione o offrire spiegazioni al Comando supremo italiano, comportandosi .quindi come forze di occupazione e arrivando anche ad atti di violenza. Questa mossa era diretta inequivocabilmente contro il nuovo governo, visto che solo ·pochi giorni prima della caduta di Mussolini, a Feltre, i tedeschi avevano opposto un rifiuto alle richieste italiane dì inviare rinforzi nella penisola.

La possibilità di un colpo di stato organizzato dai tedeschi per riportare al potere Mussolini divenne per il governo Badoglio il pericolo più immediato. Anche se venne sostituito il comandante della Milizia fascista, e questa fu inserita nell’esercito, fu subito evidente che era operante un collegamento tra elementi fascisti e agenti tedeschi affluiti nella capitale. Nelle settimane che seguirono, il timore di un colpo di stato trovò riscontro nelle informazioni dei servizi segreti su sospetti movimenti e contatti tra gruppi fascisti e tedeschi e nell’atteggiamento sempre più aggressivo di questi ultimi.

La speranza di fare accettare ai tedeschi un’uscita dell’Italia dalla guerra si dimostrò senza
fondamento. Il generale Ambrosio scriveva in quei giorni nel suo diario: “Hitler si sente ancora più legato a Mussolini; uno sganciamento dai tedeschi è ora ancora più difficile”; e poco dopo tornava sull’argomento: “un incontro nel quale noi dichiarassimo di non poter più continuare la guerra sarebbe seguito da immediati provvedimenti”. Inoltre il rifiuto di Hitler di accettare l’invito del re Vittorio Emanuele per un incontro verso la metà di agosto fu interpretato come un’ulteriore conferma delle intenzioni offensive de i tedeschi.

In effetti il Comando supremo della Wehrmacht aveva messo a punto un piano (nome in codice operazione Alarico, poi Asse) per sostituire Badoglio con un governo fascista e occupare Roma, per prevenire la probabile richiesta di armistizio. I dirigenti tedeschi temevano soprattutto che l’esempio dell’Italia potesse essere seguito da altri paesi e suscitare la speranza di un’imminente fine della guerra anche in Germania. Soltanto la tattica dilatoria del generale Kesselring, contrario ad azioni di forza e incline invece a dare fiducia al nuovo governo, ne impedì l’attuazione.

KESSELRLING

In un primo momento i tedeschi pensavano che gli angloamericani sarebbero probabilmente sbarcati in Grecia o, quanto meno, contemporaneamente in Grecia ed in Italia e subito dopo le “dimissioni” di Mussolini, il 26 luglio, Hitler emanò una direttiva in cui ordinava che le forze di occupazione italiane nell’Egeo passassero sotto il comando tedesco e che le unità italiane in controllo di posizioni cruciali fossero “rafforzate” con contingenti tedeschi. Questo intreccio di forze avrebbe reso più difficile agli italiani svincolarsi dal controllo tedesco al momento della proclamazione dell’armistizio.

Nonostante la pressione dell’opinione pubblica perché l’Italia uscisse dalla guerra e i pesanti bombardamenti angloamericani sulle città italiane il governo Badoglio non seppe prendere una decisione. La situazione dell’Italia era senza via d’uscita, stretta tra un alleato che si preparava ad agire da nemico, riversando nel paese divisioni per occupare posizioni strategiche, e dei nemici che si apprestavano a sbarcare sulla penisola, rifiutando
ogni patteggiamento preventivo.

Non vi era alcuno spazio per una trattativa, né con gli uni né con gli altri, ma Badoglio e il re non se ne resero conto e si dimostrarono del tutto incapaci ad affrontare la situazione trascinando l’Italia con la loro inazione nel più grave disastro militare della su a storia. Preoccupati del loro destino personale , più di quello del paese, subordinarono l’esigenza di stabilire contatti con gli angloamericani per arrivare ad un armistizio alla necessità di impedire un possibile tentativo tedesco di rovesciare il governo.

Così il re e Badoglio non impartirono alcuna direttiva al Comando supremo ed allo Stato maggiore dell’esercito per “orientare” i vari comandi sull’eventualità di un armistizio con gli angloamericani, nel timore che i tedeschi ne potessero venire a conoscenza. Furono invece prese una serie di misure per far fronte alla probabile aggressione tedesca.

Come ha scritto il generale Roatta in una relazione degli inizi del 1944 sugli avvenimenti di quei giorni, tutte le disposizioni adottate durante i “quarantacinque giorni”, tra la caduta di Mussolini e l’annuncio dell’armistizio non prendevano nemmeno in considerazione la possibilità di un armistizio con gli angloamericani, ma servivano a “far fronte ad un eventuale colpo di mano tedesco” per sostituire il governo Badoglio con uno fascista. Tra le direttive più importanti vi furono in particolare l’ordine “111 CT “, impartito a tutti i comandanti intorno al 10 agosto, la “Memoria O.P. 44”, preparata alla fine di agosto e recapitata entro il 5 settembre ai comandi dipendenti dallo Stato maggiore dell’esercito e infine i “Promemoria 1 e 2”.

Cosi, accanto all’elaborazione di piani antitedeschi, continuò senza alcuna modifica la collaborazione militare con la Germania per affrontare l’imminente sbarco angloamericano. Per tutta la prima metà di agosto i comandi militari si orientarono, in attesa di un armistizio, a continuare la guerra a fianco de i tedeschi. L’atteggiamento degli alti gradi militari risulta abbastanza chiaro dai verbali degli interrogatori della Commissione Palermo.

Vittorio Ambrosio

Particolarmente interessante è quello di Roatta, il quale ammise che Ambrosio gli aveva parlato della eventualità di un armistizio alcuni giorni prima della sua partenza per il convegno tra i rappresentanti degli Stati maggiori tedesco e italiano che si svolse a Bologna il 15 agosto per definire lo schieramento delle truppe in difesa della penisola. Durante lo stesso interrogatorio, Roatta giustificò il rifiuto opposto a Bologna alla proposta dei tedeschi di dislocare le truppe italiane nel centro-sud e quelle tedesche nel nord, con la singolare tesi di non aver voluto “scoprire il nostro gioco”, perché, se la accettava, i tedeschi avrebbero avuto la prova che gli italiani non si proponevano “di difendere l’Italia in comune”.

Così facendo Roatta perse l’occasione unica di concentrare le truppe italiane nell’Italia centro-meridionale e di liberare dai tedeschi almeno questa parte del paese. Ma fece di più: allo stesso convegno chiese e ottenne una divisione tedesca per rinforzare la Sardegna, il cui possesso era strategicamente fondamentale per l’Italia. Si potrebbe pensare che Roatta abbia agito così in quanto filotedesco. Senza la sua collaborazione era però impossibile predisporre qualunque misura per consentire all’esercito italiano, in stretto contatto con quello tedesco, di affrontare un eventuale cambiamento di fronte.

D’altra parte né Badoglio né Ambrosio si comportarono diversamente. Badoglio rifiutò la proposta fattagli da Ambrosio intorno al 20 agosto di iniziare a “orientare i comandi periferici” soprattutto nei Balcani, dichiarando, secondo la testimonianza di Ambrosio, che egli aveva preventivato anche la perdita di mezzo milione di uomini, “piuttosto che soggiacere alle ben più gravi conseguenze d’una immediata reazione germanica provocata da indiscrezioni”. D’altra parte, anche il generale Ambrosio continuò, a comportarsi come se prevedesse un proseguimento dell’alleanza con la Germania, evidentemente per non insospettire i tedeschi, continuando a chiedere invii di truppe tedesche in Italia.

Non vi fu alcun cambiamento nella politica italiana che non fosse provocato da iniziative tedesche. Il Comando supremo continuò per tutto agosto e fino alla proclamazione dell’armistizio a predisporre misure di difesa contro uno sbarco angloamericano in collaborazione con il Comando tedesco. Ai primi di settembre furono inviate a tutti i comandanti circolari e direttive esortandoli ad una piena collaborazione con i tedeschi e avvertendoli che si tenessero pronti a reagire ad eventuali sbarchi nemici.

E’ difficile spiegare con la necessità di salvaguardare il segreto delle trattative l’ordine inviato ai primi di settembre dal Comando supremo al Comando Gruppo Armate Est di far difendere i porti di Durazzo (dal quale, secondo la “Memoria 44” si dovevano imbarcare le divisioni della IX Armata per mettersi in salvo) e di Cattaro anche da un presidio tedesco, in vista di sbarchi angloamericani. Si può concludere che vi era una evidente resistenza da parte dei comandi militari ad accettare un cambiamento di fronte e che alcuni di essi potrebbero essersi trincerati dietro l’esigenza di mantenere il segreto per evitare di prendere qualunque concreta iniziativa.

*Elena Aga Rossi si è laureata in Lettere e Filosofia presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” con una tesi sul movimento Giustizia e Libertà e sulle origini del Partito d’Azione, con relatore il professor Guido Verucci. Durante la preparazione della tesi ha conosciuto lo storico Renzo De Felice, del quale è poi diventata assistente. Ha successivamente insegnato nelle università di Padova, Pisa, Palermo e Roma; ha inoltre svolto ricerche presso il Woodrow Wilson International Center for Scholars, l’Università di Oxford, la British Academy of Sciences, il Center for European Studies, l’Università di Harvard e la Stanford University. È vedova dello storico russo Viktor Zaslavskij, con il quale nel 1997 ha pubblicato il saggio Togliatti e Stalin, basato su documenti degli archivi sovietici fino ad allora inediti nel quale sostiene, tra l’altro, che la “svolta di Salerno” – con cui il Partito Comunista Italiano abbandonò la pregiudiziale antimonarchica ed entrò nel governo Badoglio II – non derivò da una decisione autonoma di Palmiro Togliatti, bensì da un ordine diretto di Stalin. Per questo lavoro, nel 1998 ha ricevuto il premio Acqui Storia. Il 22 aprile 2012 è stata insignita del Premio Renato Benedetto Fabrizi dell’ANPI.

Questa voce è stata pubblicata in Senza categoria. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento